Arundhati Roy è una scrittrice indiana, nonché un'attivista politica impegnata nei movimenti anti-globalizzazione.
Sua madre è originaria del Kerala e di religione cristiana, suo padre è un coltivatore di tè bengalese e di religione induista. Trascorre l'infanzia nel Kerala e a 16 anni va a vivere a Delhi in condizioni da senzatetto, dimorando in una baracca all'interno del Feroz Shah Kotla, il campo da cricket di Delhi. Riesce a studiare architettura presso la Delhi School of Architecture, dove incontra il primo marito, l'architetto Gerard Da Cunha.
Incontra il suo secondo marito, il regista Pradeep Kishen, nel 1984 e scrive le sceneggiature dei film In Which Annie Gives it Those Ones e Electric Moon, nonché della serie televisiva Banyan Tree; recita inoltre la parte di una ragazza contadina nel film Massey Sahib.
Arundhati Roy inizia a scrivere Il Dio delle piccole cose nel 1992 e lo conclude quattro anni dopo. Il libro è semi-autobiografico e racconta molta dell'infanzia trascorsa ad Aymanam. Il libro riscuote grande successo ed oltre ad essere premiato è stato tradotto e pubblicato in ventuno nazioni.
A tutt'oggi, Il Dio delle piccole cose è l'unico romanzo scritto dalla Roy. Da quando ha vinto il Premio Booker, Arundhati Roy ha preferito concentrare la propria attività di scrittrice scrivendo saggi su questioni politiche e sociali. Tra i temi affrontati vi sono il progetto della Diga del Narmada, le armi nucleari dell'India, il fanatismo religioso induista, le attività della multinazionale Enron in India. È considerata una delle figure guida del movimento mondiale anti-globalizzazione e nei suoi testi la critica al neo-imperialismo ed al neoliberismo è forte e veemente.
In risposta ai test nucleari indiani di Pokhran, nel Rajasthan, Arundhati Roy ha scritto il saggio "La fine dell'immaginazione", una critica alla politica nucleare del governo indiano inclusa nella raccolta "La fine delle illusioni" (The Cost of Living), in cui viene affrontato anche l'impatto sulle popolazioni interessate del massiccio progetto di costruzione di dighe e centrali idroelettriche negli stati centrali e occidentali del Maharashtra, Madhya Pradesh e Gujarat.
Una sua raccolta di saggi pubblicata in italiano è "Guida all'impero per la gente comune", dove in una prima parte l'autrice affronta il tema del neo-imperialismo e della "guerra al terrorismo" globale ed in una seconda parte focalizza la sua attenzione sull'India odierna.
Nel 2002, Arundhati Roy è stata condannata dalla Corte Suprema di Delhi per oltraggio alla corte medesima, accusata dall'autrice di mettere a tacere le proteste contro il progetto della diga del Narmada. Tuttavia la condanna è stata solo alla simbolica pena di un giorno di prigione.
Nel maggio del 2004 ha ricevuto il Sydney Peace Prize per il suo lavoro nel campo sociale e il continuo sostegno alla nonviolenza. Nel gennaio 2006 le è stato conferito il premio della Sahitya Akademi per la sua raccolta di saggi L'algebra della giustizia infinita, ma l'autrice lo ha rifiutato. (http://it.wikipedia.org/wiki/Arundhati_Roy)
Tratto da
http://www.internazionale.it/guerra-e-potere/
Gli scrittori pensano di scegliere le loro storie dal mondo. Io mi sto convincendo che sia la vanità a farglielo credere. In realtà è esattamente il contrario. Sono le storie a scegliere gli scrittori. Sono le storie che si rivelano a noi. Il racconto pubblico e il racconto privato ci colonizzano. Ci affidano degli incarichi. Insistono per farsi narrare. Narrativa e saggistica sono solo tecniche diverse per raccontare una storia. Per ragioni che non comprendo fino in fondo, la narrativa si agita al di fuori di me.
La saggistica mi viene strappata dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina. Il tema di buona parte di quello che scrivo, narrativa e saggistica, è il rapporto fra potere e impotenza, e il conflitto infinito, circolare, in cui sono impegnati questi due elementi. John Berger, autore straordinario, una volta ha scritto: “Mai più una singola storia verrà raccontata come se fosse l’unica”.
Non c’è mai un’unica storia. Ci sono solo modi di vedere. Perciò quando racconto una storia, non la racconto come un ideologo che contrappone un’ideologia assolutista a un’altra, ma come un cantastorie che vuole condividere con altri il suo modo di vedere. Anche se può sembrare il contrario, quello che scrivo in realtà non parla dei paesi e della loro storia, parla del potere. Della paranoia e della spietatezza del potere. Della fisica del potere. Io credo che la concentrazione di un potere vasto e senza ostacoli nelle mani di uno stato o di un paese, di una grande azienda o di un’istituzione – o addirittura di un individuo, un coniuge, un amico o un parente – a prescindere dall’ideologia, provochi eccessi come quelli che racconterò...